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Ignazio Didu: I Greci e la Sardegna. Il mito e la storia

venerdì, 12 maggio 2017 09:18

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Il Prof. Didu tiene una lezione presso la Delegazione cagliaritana dell’Associazione Italiana di Cultura Classica
Francesca Bianchi
FtNews ha intervistato il professor Ignazio Didu, autore del libro I Greci e la Sardegna. Il mito e la storia, un saggio dove, attraverso una scrupolosissima analisi delle fonti, si cerca di ricostruire il rapporto tra area egea e mondo sardo.
Autore di studi di storia politico-istituzionale, relativi in particolare all'età ellenistica ed ai rapporti tra Greci e Romani, per anni ha insegnato storia greca presso l'Università di Cagliari, interessandosi di svariate tematiche sulla Sardegna antica in ambito greco e romano.
Nel corso della nostra piacevole conversazione, il prof. Didu ha ripercorso le tappe principali dei rapporti tra Greci e Sardi, soffermandosi sul dibattito relativo al nome più antico dell'isola, sull'identificazione della Sardegna con l'Isola dei Feaci, sui legami dei Shardana con la Sardegna, sull'espressione "riso sardonico" e sul misterioso rituale dell'incubazione, di cui parla Aristotele nella Fisica. Ha spiegato di aver scritto questo saggio per sistematizzare una serie di temi tra loro concatenati in una visione d'insieme, che al momento mancava, ribadendo più volte di averlo fatto con onestà intellettuale e spirito di conoscenza, argine alla seduzione delle trappole di facili scoop e sensazionalismi fuorvianti.

Professor Didu, nel 2002 ha pubblicato il libro "I Greci e la Sardegna. Il mito e la storia", un lavoro dove attraverso una scrupolosissima analisi delle fonti, ha cercato di ricostruire il rapporto tra area egea e mondo sardo. Dalle testimonianze esaminate è possibile dedurre che tipo di conoscenza i Greci avessero della Sardegna e dei suoi abitanti?
Una prima fase, quella protostorica, tra il 1300 e il 1200 a.C., vide l’approccio degli antenati dei Greci, convenzionalmente definiti Micenei, con la terra dei Sardi che viveva l’età nuragica. Relativamente a questi contatti possiamo basarci sulla recente ricerca archeologica, che ha portato alla luce reperti ceramici e di altro materiale di provenienza egea. Altre informazioni vengono dalla più tarda mitografia, da assumere con cautela per l’intento propagandistico che la caratterizza. I rapporti tra Micenei e Nuragici dovettero restare sul piano utilitaristico dello scambio dei metalli dell’isola coi prodotti dell’artigianato oltremarino.
Noi siamo in grado di individuare due percorsi interni all’isola, a partire dal golfo di Cagliari: una “via dell’argento” verso l’Iglesiente (da quell’esperienza derivò l’espressione Arghyrophleps nesos, “Isola dalle vene d’argento”, registrata da uno scolio al Timeo di Platone) e una “via del rame” verso le Barbagie (ancora oggi a nord del nuraghe Arrubiu di Orroli, ove è stato trovato un frammento di vaso in alabastro di fattura micenea, c’è il sito di Funtana Raminosa). Penetrazioni pacifiche che fornirono conoscenze su usi e costumi dei nativi e attenzione per le forme del crescente megalitismo sardo.

E poi?
Dopo il crollo del mondo miceneo i rapporti con la Sardegna s’interrompono per circa quattro secoli. Riprendono tra VIII e VII secolo a.C., nella stagione della colonizzazione che ha come perno la nascita della polis, simbolo di un mondo nuovo in terra ellenica. Ancora una volta la documentazione principe viene dall’archeologia (materiali ceramici da cui si evince un traffico organizzato nei porti fenicio-punici di Neapolis, Othoca, Tharros, Karalis, Olbia, di mercanti di Attica, Eubea, Ionia). Continuità nel tempo e soste portuali procurarono informazioni più dettagliate rispetto alla protostoria e furono alla base dell’immaginario ellenico, ma anche di osservazioni di valore storico, recepiti dalla storiografia nascente, ove eccelse la grande personalità di Erodoto.

Nella premessa al libro distingue l'approccio archeologico da quello filologico. Che importanza hanno queste due scuole di pensiero nella ricostruzione dei rapporti tra Greci e Sardi?
Noi abbiamo conosciuto due fasi nella ricerca: una prima fase, prevalentemente filologico-letteraria, che è andata progressivamente isterilendosi in un sempre più sofisticato discorso sulle fonti, la loro gerarchia e le reciproche interferenze. A questo tipo di filologismo è andata nel tempo affiancandosi, fin quasi a giustapporsi, una scuola in qualche modo reattiva, di marca archeologica. Ancora una volta il rischio è quello dell’autoreferenzialità, di una ipervalutazione con inevitabili forzature interpretative dei dati parziali. In aggiunta va registrata una sorta di antagonistiche chiavi di lettura tra scuole, “fenicia” e “classica”. Quello che allo stato della ricerca occorre è uno spirito collaborativo tra i vari ambiti, ma questo si sta già realizzando come emerge dai convegni che periodicamente si tengono nell’isola con la partecipazione sia di storici e archeologi di provenienza accademica, sia di archeologi sul campo provenienti dalle Sovrintendenze.

Nella mitografia greca è attestato un forte interesse per il mondo sardo. Le recenti acquisizioni in campo archeologico confermano o smentiscono le testimonianze presenti in queste trame leggendarie?
Queste acquisizioni offrono un grande contributo, ma vanno prese con prudenza e spirito critico: l’importanza di un ritrovamento, di un manufatto, di una struttura è fuori discussione, ma l’oggetto in sé parla fino a un certo punto, spesso è proprio muto; allora la tentazione di dargli voce, la nostra voce, è forte, e talvolta, anche prendendo spunto dai racconti mitografici, si rischiano forzature. Del resto è quanto avviene in ambito linguistico, in cui certi accostamenti formali, certe assonanze, rischiano di fuorviare, o in ambito letterario, quando il racconto degli antichi ci conduce ad adesioni di incontrollato entusiasmo.

La figura centrale del mito in Diodoro, in Pausania e nelle loro fonti è Iolao, nipote e compagno di Eracle e costruttore con Dedalo di daidàleia, di gymnàsia e di dikastéria. Per Diodoro fu Iolao a fondare Olbia, che reca il nome di un’importantissima colonia greca di Mileto, situata sul mar Nero. E' credibile l'ipotesi di una fondazione coloniale greca di Olbia ad opera di Iolao?
L’eroe, in quanto tale, è leggendario. Se poi, sotto il nome di Iolao, si nasconda un momento, una realtà storica, il discorso diventa serio e problematico. I Greci, dopo la riscoperta della Sardegna, si appropriano di tante meraviglie dell’isola: dietro gli edifici di cui leggiamo in Diodoro si individuano nuraghi, tombe di giganti, pozzi sacri; esemplare è anche il non identificato autore del De mirabilibus auscultationibus che scrive Dicono che nell’isola di Sardegna ci siano edifici costruiti secondo l’antico modo ellenico e anche tholoi modellate con straordinaria simmetria e che siano state erette da Iolao…; i Greci s’impadroniscono anche della primogenitura del nome dell’isola, Ichnussa o Sandaliotis e, infine, non poteva mancare l’idea che i loro antenati, nella personificazione di Iolao e il suo seguito (i Tespiadi generati da Eracle), avessero fondato una colonia non casualmente chiamata Olbia.
Lei cita Olbia sul mar Nero, ma non era l’unica: ad esempio c’era un’Olbia sulla costa provenzale, emanazione di Massalia. Al nome Olbia, che significa “Felice”, era facile il ricorso per gli avventurosi naviganti greci, e non v’è dubbio che il porto di Olbia, lo vediamo al giorno d’oggi, ha tutte le caratteristiche di un approdo bello e sicuro, quindi “Felice”. Purtroppo tutto ciò non basta. Anche Neapolis è nome al quale i Greci fecero ricorso e ci fu una Neapolis in Sardegna, nell’Oristanese. Ma, come i linguisti insegnano, può trattarsi di traduzioni o calchi punici o indigeni. In definitiva, un termine che significa “La Felice” e che si adatta bene al luogo può essere nato dalla frequentazione greca nel contesto mercantile dei rapporti greco-punici e, alla caduta del dominio punico nell’isola, che in quel sito aveva un insediamento, ereditato dai Romani, anche per marcare la rottura con la storia dell’avversato antagonista.
Gli itinerari degli eroi del mito verso la Sardegna (dal libro I Greci e la Sardegna)
In conclusione?
A mio parere la questione resta aperta. Recenti scoperte archeologiche ora orienterebbero per una sia pur breve stagione coloniale o, più modestamente, un tentativo coloniale greco in quell’area, forse alla fine del VII secolo, prima della battaglia di Alalia (545 a.C.) che mise termine ad ogni velleità coloniale greca sia in Corsica che in Sardegna. Voglio peraltro ricordare che la storiografia antica non aiuta in quella direzione. Erodoto cita tre circostanze a cavallo della battaglia di Alalia, in cui gli Ioni d’Asia si aprirono all’idea di esperienze coloniali in Sardegna, ma in tutti e tre i casi la prospettiva fu lasciata cadere. È questo un campo in cui l’archeologia, se ci saranno ulteriori sviluppi, può offrire una risposta.

Il libro inizia con la discussione della pretesa greca che il nome più antico dell’isola fosse greco, precisamente Ichnussa o Sandaliotis, nomi presenti rispettivamente in Mirsilo di Metimna ed in Timeo. E' possibile riuscire a stabilire con certezza il nome più antico dell'isola?
Parlavamo prima delle appropriazioni ideali da parte del mondo greco. Forse quella relativa al nome dell’isola rappresenta la sintesi che tutte le abbraccia. Non v’è dubbio che il termine Ichnussa, “a impronta di piede” (e secondariamente Sandaliotis, “impronta di sandalo”) nasca dall’esperienza marinaresca degli audaci naviganti che si muovono nel quadro della colonizzazione mediterranea. C’è di più: un apparente errore, recepito da Erodoto, identifica la Sardegna come l’isola più grande, ma come fu da tempo notato, l’errore nasce dal calcolo dell’ampiezza territoriale in base ai tempi di percorrenza; dato l’andamento costiero della Sardegna, per circumnavigare l’isola occorreva più tempo di quello occorrente per la più estesa Sicilia e, dunque, quell’errore è ulteriore attestazione della conoscenza in qualche modo puntuale che i Greci avevano della Sardegna.
Ma questo all’orgoglio greco non bastava: pretesero la primogenitura. Ichnussa avrebbe preceduto il nome di Sardò, introdotto dal libico Sardos, che finì per sostituirlo. Ma la contraddizione dei mitografi è palese: secondo la “summa” mitografica di Pausania fu proprio Sardos ad approdare per primo nell’isola, mentre il primo eroe greco a raggiungere l’isola fu Aristeo, ma dopo Sardos. In realtà, che gli stessi Greci sapessero di una antichissima denominazione dell’isola, avente per base una radice Sard-, appare evidente, a partire dall’episodio dell’Odissea in cui Odisseo, alla vigilia della strage dei proci, sorrise in modo “proprio sardonio”. Anche qui l’archeologia è risolutiva: una stele fenicia rinvenuta a Nora, ora al Museo archeologico di Cagliari, non più recente dell’VIII secolo a.C. e quindi anteriore all’esperienza coloniale greca, reca il nome dell’isola – Sardò – nella trascrizione semitica. Ichnussa restò sempre marginale e confinata nell’ambito letterario.

Secondo Lei è credibile l'ipotesi che la Sardegna debba essere identificata con l’isola dei Feaci, posto in cui, secondo il noto racconto dell’Odissea omerica, sarebbe approdato il naufrago Ulisse, accolto dalla principessa Nausicaa e dal re Alcinoo?
Vede, la trama della narrazione odisseica sui luoghi dell’avventura si mantiene sempre su un piano di vaghezza, in ragione di un certo tipo di creatività che si regge su schemi ripetitivi dei meccanismi aedici cui adattare un certo tipo di informazione su luoghi lontani, che un sedentario può raccogliere da occasionali e incompleti racconti di marinai, come scriveva il grande linguista e archeologo J. Chadwick; a questi fantastici racconti noi possiamo adattare, come di fatto è avvenuto, qualsivoglia speculazione, suggestiva finché si vuole, ma difficile da condividere.
Voglio dire che l’informazione che supponiamo sia pervenuta all’aedo sull’isola dei Feaci, ammesso che di informazione si tratti e non di pura fantasia creativa, doveva essere così vaga da consentirgli di applicarvi uno schema di realtà che è proprio la realtà a lui prossima e da lui ben conosciuta: quella della polis nascente, col suo muro di cinta, l’agorà, il porto ben attrezzato, il tempio di Posidone, la casa del Signore del posto, il basileus Alcinoo ben distinguibile dalle altre abitazioni; lo stesso basileus è un “primus inter pares” tra altri dodici: è lo specchio del contesto arcaico ove il potere sovrano comincia a essere insidiato dalla casta aristocratica, che finirà per impossessarsene.
Ogni altra lettura è frutto di accostamenti azzardati a cui la metodologia storica è estranea, come a certi recenti sensazionalismi che sanno piuttosto di scoop giornalistico. Alludo ad esempio all’identificazione della Sardegna con la favolosa Atlantide del mito di Platone (che poi non è un vero mito, ma una parabola con finalità pedagogica), la potente dominatrice del mare e da questo sommersa. Platone non avrebbe mai immaginato, come scriveva il noto studioso A. Lesky nella sua ponderosa Storia della Letteratura greca, che, a distanza di millenni, i posteri avrebbero cercato Atlantide con la stessa accanita serietà con cui si tracciano sulle carte i viaggi di Odisseo.

Questo volume avvicina il mito di Sardus ai Shardana, un popolo di guerrieri noto in Egitto tra il XIV ed il XII secolo a.C. Chi erano i Shardana e come si spiega l'affinità tra il loro nome e quello della Sardegna?
La questione è dibattuta. Questi Shardana sono ripetutamente menzionati nei documenti egizi lungo quell’ampio arco di tempo e localizzabili in un vasto spazio geografico che va dall’area siro-palestinese alla Libia. Ora appaiono al servizio dei Faraoni, ora contro, fino a essere accomunati ai Popoli del Mare e “imperversanti in mezzo al mare”. Il punto è: hanno a che fare con la Sardegna e, se sì, le loro scaturigini sono in Sardegna o l’isola fu l’approdo finale di una gente di altra provenienza, al termine degli sconvolgimenti che portarono al crollo dei mondi ittita e miceneo? Dovendo optare per una scelta, posta la credibilità del rapporto omofonico tra Srdn degli Egizi ed il Sardò ereditato dai Greci, forse per il tramite fenicio (vedasi la stele di Nora), a me pare che l’insieme dei dati sia più favorevole all’ipotesi di una provenienza dalla Sardegna. Parlerei però di autoctonia relativa, ove si tengano presenti la vicinanza dell’Africa ed i rapporti sardo-africani, che poi si riverberano sul mito di Sardos, giunto in Sardegna a capo dei Libi.
A ciò conduce la continuità culturale, senza rotture, del mondo nuragico, così riconoscibile nel contesto mediterraneo, cui si possono aggiungere navicelle e bronzetti dalle interessanti somiglianze con le raffigurazioni degli Shardana nel mondo egizio; certo, c’è un notevole divario cronologico (anche quattro secoli), ma questo si può spiegare con la tipica persistenza che si attua in una realtà conservatrice, che fa del proprio passato un oggetto di culto. È in tale contesto che va elaborandosi l’idea della figura mitica di un eroe eponimo e fondatore, Sardos, etimologicamente spiegabile per accostamento linguistico agli Shardana, figura da ultimo favorita dalle successive assimilazioni e mutuazioni a contatto con i dominatori fenicio-punici e romani (da Sid al Sardus Pater).
Tempio del Sardus Pater di Antas con l’iscrizione attestante il culto del Sardus Pater
I nuraghi sardi ricordano le fortificazioni megalitiche di Tirinto, di Micene, di Hattusa, in Asia Minore. Secondo Lei, furono gli architetti sardi a diffondere nel Mediterraneo la tecnica costruttiva megalitica o ci furono influenze culturali reciproche tra le diverse civiltà che diedero vita alle monumentali fortificazioni presenti in tutti i paesi del Mediterraneo?
Si tratta, come dicono gli archeologi più avveduti, di naturali fenomeni di convergenza: il megalitismo è espressione architettonica diffusa dentro e fuori il Mediterraneo. Certo non vanno escluse reciproche influenze, ma parlare di diffusione di quella tecnica da parte dei Sardi mi pare eccessivo. Così come è da respingere l’idea di un mondo nuragico del tutto debitore al mondo proto greco nella realizzazione di quegli edifici. Ribadisco l’importanza, cui accennavo prima, della continuità di un processo di crescita che non conosce salti o brusche rotture che facciano pensare a interventi esterni.

Dedica alcune pagine alla trattazione dell'espressione "riso sardonico", la cui attestazione più antica, come prima ricordava, è contenuta nell'ambito dei versi 299-301 del XX libro dell'Odissea. Quale legame c'è tra il "riso sardonico" e la Sardegna e quale spiegazione davano gli antichi in merito all'origine del significato di questa espressione?
Come ho già accennato, il termine sardonico o, meglio, sardonio, dell’attestazione omerica ha una sua rilevanza circa la questione della priorità di Sardò rispetto a Ichnussa. Oggi, malgrado residui dubbi e incertezze, la prevalenza delle opinioni è per un collegamento dell’espressione, diventata proverbiale, di riso sardonio con la Sardegna. Le citazioni sono numerose e riconducibili a due ambiti: uno mitico-storico-etnografico, l’altro naturalistico-botanico.
Mi limito a menzionare il mito di Talos, automa di bronzo forgiato da Efesto, giunto a noi in diverse versioni e riconducibile alla Sardegna: il mostro, balzando nel fuoco e arroventandosi, abbracciava malcapitati di varia provenienza, bruciandoli e ridendo; in una variante a ridere amaramente sono le vittime. C’è poi la notizia che riferisce della soppressione, nell’isola, a bastonate e a sassate dei settantenni da parte dei figli, che poi li scaraventavano, tra le risa, in un fossato; anche qui c’è un’altra versione in cui a ridere in modo sardonio sono le vittime.
Siamo in presenza di un rituale che trova la sua spiegazione nella drammatizzazione sacrale di un indispensabile, crudele ricambio generazionale. In ambito botanico il riso sardonio è riferito alla smorfia particolare di chi ingerisce un’erba tossica tuttora allignante in Sardegna, che poteva (e può) condurre alla morte, e qui siamo in presenza di un dato scientificamente accertato. Quella che, alla fine, viene fuori, è l’idea, persistente tra gli antichi, di un’isola inquietante per ancestrali costumi e pericoli ambientali.

Nel IV libro della Fisica il filosofo greco Aristotele fa riferimento al rituale dell'incubazione, un rito misterioso ed antico che probabilmente si svolgeva presso le tombe dei giganti. In cosa consisteva questo rituale? Chi e perché si sottoponeva a questo rituale? In quali luoghi avveniva?
Semplifico il più possibile la questione. Aristotele, nel trattare la percezione del rapporto tempo-mutamento, che viene a mancare nell’assenza dello stato cosciente, riferisce a mo’ di esempio, di quelli che, in Sardegna, giacciono presso gli eroi, i quali, quando si destano, saldano il risveglio all’addormentamento, annullando, ovviamente, la fase intermedia di un sonno profondo. Su questa notizia già gli antichi commentatori hanno elaborato una serie di spiegazioni. Non è mancato il collegamento al mito di Iolao e dei Tespiadi (sarebbero questi gli eroi, morti e sepolti nell’isola).
Una spiegazione attendibile è quella di Filopono (VI secolo d.C.), che riferisce di una pratica, in Sardegna, per cui i malati, stando a dormire presso non precisati eroi per cinque giorni, ottenevano la guarigione. Nello scrittore cristiano Tertulliano (III secolo d.C.) c’è l’esplicita affermazione di una pratica incubatoria ove gli eroi sono ridotti a uno che nel suo tempio libera dalle ossessioni quelli che l’autore chiama appunto incubatores. Viene da pensare che Tertulliano abbia accostato al dato aristotelico notizie dei propri tempi, forse connesse con la rivitalizzazione del culto del Sardus Pater (il suo tempio di Antas nell’Iglesiente fu restaurato dall’imperatore Caracalla): potrebbe essere questi l’eroe, presso cui Tertulliano immagina il rituale.
Ora, la serietà di Aristotele è fuori discussione: il filosofo non si baloccava coi miti e pertanto dalla sua secca notizia potrebbe trarsi indizio di una effettiva pratica terapeutico-incubatoria, tesa alla liberazione, attraverso un sonno indotto per suggestione (quindi magicamente) da affanni e mali spirituali e materiali. Del resto la pratica era diffusa nel Mediterraneo (già Erodoto l'attribuiva ad una gente africana).

Chi sarebbero allora questi eroi?
Bisogna evidentemente mettere da parte il mito greco e ricondursi ad una realtà più propriamente sarda, nella quale ci sono queste entità che gli antichi hanno chiamato eroi ed inducono ad un sonno profondo e risanatore. Si è pensato dunque, credibilmente, agli avi dei Sardi stessi, eroizzati. In che contesto? Il più propizio parrebbe proprio quello delle “Tombe di giganti”. Di questi monumenti ne sono stati individuati oltre cinquecento, sparsi in tutta l’isola, nelle tipologie a stele centinate e a filari megalitici. Quale contesto di suggestione più propizio e più capace di fare notizia (proprio in ragione della diffusione sul territorio), diventata perciò di dominio pubblico ed acquisita dai vari eruditi e raccoglitori di informazioni nell’antichità? Vero è che l’archeologia ha mostrato trattarsi di tombe collettive, non sappiamo se dei comuni abitanti dei villaggi o delle élites locali.
Esse, però, intorno ai tempi di Aristotele (IV secolo a.C.), erano ormai cadute in disuso e, probabilmente, se ne era persa la corretta nozione. Fuori dalla pienezza della civiltà nuragica, si può pensare che all’immaginazione popolare, nella loro imponenza, abbiano preso ad apparire come sepolture non di comuni mortali, ma di esseri prodigiosi e quindi di antichi eroi dotati di poteri straordinari. Una suggestione che, anche in tempi moderni, non mancò di colpire quel viaggiatore curioso delle cose sarde, che fu Alberto Ferrero della Marmora, il quale, nell’Ottocento, ebbe modo di osservarle con spirito romantico, dandone una immaginifica lettura. E quella suggestione ancor oggi, per l’ambiente naturale in cui sono inserite, può avvertirla il visitatore che vada per la campagna sarda. Del resto sono i Sardi stessi che ancora ai nostri tempi continuano a chiamarle familiarmente tumbas de sos gigantes o tumbas de is gigantis, a seconda della parlata locale.

Quale messaggio si augura possa arrivare a coloro che avranno il piacere di leggere questo libro?
Questo libro è nato per colmare un vuoto che avvertivo da tempo. Mentre abbiamo avuto una Sardegna nuragica, una Sardegna fenicio-punica, una Sardegna romana, non c’è mai stata, nella storia, una Sardegna greca, ma c’è stata una Sardegna dell’immaginario greco. Un lavoro d’insieme su questo tema non c’era, ma solo pubblicazioni settoriali. Di questo ho inteso occuparmi: un’esigenza nata in ambito accademico, ma proiettata anche all’esterno verso un pubblico più ampio. Anni d’insegnamento mi hanno gratificato in relazione all’obiettivo: studenti coinvolti e partecipi sono stati il principale veicolo verso il mondo più vasto dei cultori di una materia da assumere con spirito di conoscenza, argine alla seduzione delle trappole di facili scoop e sensazionalismi fuorvianti.
Di una cosa facilmente accertabile siamo debitori agli antichi greci: dietro lo schermo delle loro appropriazioni ideali, intravediamo gli antichi sardi, costruttori di una civiltà e partecipi del più gran dono degli dei: il culto e la pratica della libertà, quell’eleutheria che i loro mitografi orgogliosamente pretesero di aver portato, insieme a tanti altri doni, nell’isola. Questo messaggio ho fatto mio e, come tale, mi auguro abbia raggiunto e continui a raggiungere il pubblico dei lettori.
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